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Suggerire leggerezza

Inauguriamo questo 2025 con il primo numero dell'anno de "La Penna Blu" di Fiamma Colette Invernizzi, l'editoriale mensile della caporedattrice di Isplora.
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23 gennaio 2025

Care e cari utenti, 

in questo lungo gennaio (interminabile solo come gennaio sa essere) e in questo inizio d’anno in cui si mescolano emozioni ed intenzioni, mi piace rubare qualche minuto alla corsa del tempo per cercare un termine, un modo di dire, un titolo o un concetto che possa farmi (e farci) compagnia per le prossime settimane.

Così scelgo la leggerezza

Leggerezza perché mi fa pensare alle parole di Italo Calvino, nella prima delle sue Lezioni americane, in cui scriveva:

Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”,

ma soprattutto perché questa leggerezza mi riporta alla mente due versi di Mariangela Gualtieri che, in Ringraziare desidero, dopo l’ultima giornata di Socrate e lo stupore del fuoco manifesta un pensiero per tutti quelli che sono piccoli, liberi e limpidi. 

(Se avete 5 minuti di tempo potete ascoltarla qui. E se non li avete ritagliateli da qualcosa di meno importante)

Un’alternativa nel modo di guardare, dunque, che non è superficialità ma massima attenzione, cura e ascolto.

Una prospettiva diversa, che entra in relazione con il mondo della progettazione soprattutto quando si parla di contesti fragili, di interventi temporanei e di tutti quei gesti compositivi che si allontanano dal peso gravitazionale della materia. 

Condensati dentro questa limpidezza, libertà e leggerezza vorrei annoverare tre incontri – fisici e virtuali – con professionisti e colleghi del settore con cui ho avuto il piacere di entrare in conversazione, per esplorarne approcci e architetture:
  1. Camilla De Camilli, che con generosità ha dato voce ad uno spazio delicato in cui “custodire” non è solo un’intenzione bensì il fil rouge progettuale capace di sottolineare intenti programmatici e compositivi;

  2. Mirco Simonato, che sulla piccola scala ha restituito spazi metafisici e di preghiera alla collettività, mescolando i silenzi alle forme, le attese alle finiture, nella consapevolezza di quanto possa essere comunicativo un gesto architettonico;

  3. Riccardo Russo, che con entusiasmo si è tuffato in un’esperienza “quasi mistica”, per la progettazione della Cripta della Cattedrale di Otranto, in cui una nuova luce riesce a restituire allo spazio il valore spirituale di un tempo.
Conversazioni come queste, con figure tanto eterogenee da farmi sorridere al pensiero di quanti linguaggi d’architettura possano continuare a manifestarsi, riportano alla mente una delle primissime lezioni di università a cui avevo assistito.
Il titolo era “Vedere, guardare o osservare?” e si focalizzava interamente sul sottolineare le differenti sfumature e intenzionalità legate all’atto di percepire visivamente, perché noi giovani studenti potessimo imparare ad allenare lo sguardo sapendo che:  
  • Vedere: è il processo passivo di percezione visiva, che avviene senza sforzo o intenzionalità;

  • Guardare: è un atto attivo, ma non necessariamente approfondito, in cui si rivolge l'attenzione a qualcosa;

  • Osservare: è il processo più attento e analitico, dove si guarda con intenzione di comprendere, notare dettagli e riflettere.

Una sfumatura linguistica che ha accompagnato tutti i miei anni di studio, ricerca e lavoro, diventando una fedele compagna di viaggio, capace di farmi leggere brani architettonici e urbani non sempre così evidenti. 

Che cosa vediamo, noi architetti? Che cosa guardiamo? Quali dettagli osserviamo? 

Da qualche tempo la mia ossessione sono diventate le maniglie. Il loro materiale, la loro forma, la loro sensazione al tatto, la loro cromia, ergonomia, dimensione e – quando accade – la loro assenza. Oggetti tanto umili da trovarsi spesso nei mercatini delle pulci, quanto longevi e rilevanti da un punto di vista sociale e culturale: basti pensare come, al variare dell’impugnatura, possa drasticamente cambiare il gesto di accedere ad una stanza, sia essa chiusa da una porta a battente, a ventola (come nei saloon) o da un shoji giapponese. 

Dettagli che raccontano storie – come quella dell’inventore afroamericano Osborn Dorsey che per primo ha registrato negli Stati Uniti il brevetto di una maniglia, nel 1878 – e tracciano modalità di osservazione del Novecento, secolo in cui designer e architetti come Walter Gropius, Gio Ponti e Arne Jacobsen hanno reso una modesta sbarra sagomata una delle forme di design moderne più diffuse.

Oggetti piccoli, a loro modo liberi. Curiosi. Sono solo io o anche qualcuno di voi ha un dettaglio progettuale che nel tempo è diventata un’ossessione? 

Tante sono sempre le domande e tante saranno le storie da scoprire ma per ora non mi resta che dire… alla prossima! ;)

F.

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